mercoledì 28 agosto 2013

"La Meglio Gioventù" RECENSIONE

E' incredibile: non riesco a trovare in rete neanche una recensione negativa a “La Meglio Gioventù” di Marco Tullio Giordana. Allora mi sa che sarò costretto a scriverla io.
“La Meglio Gioventù” (2002) si propone come una magniloquente epopea sulla storia italiana recente. Narra le vicende di una famiglia romana, i Carati, che dal 1966 al 2003 viene influenzata o coinvolta da tutti i principali eventi della vita politica e culturale del nostro paese: la legge Basaglia, la contestazione giovanile, il terrorismo, le stragi mafiose. Si tratta forse di un pretesto un po' forzato, ma non è questo il problema. Il problema, quello che nessuno sembra volere ammettere, è che “La Meglio Gioventù” è soprattutto una fiction insulsa e che in questa sua insulsaggine è il ritratto fedele e spietato della generazione che vorrebbe celebrare, e di cui gli stessi autori fanno parte, ovvero la generazione di chi aveva vent'anni nel '68. E ne ricalca al meglio i fallimenti, l'autoreferenzialità e l'ipocrisia, e soprattutto l'incapacità di leggere il mondo presente.
Basta confrontare la prima parte del film, in cui si narrano vicende relative alla fine degli anni Sessanta e ai primi Settanta - un'epoca che gli sceneggiatori Rulli e Petraglia devono aver vissuto intensamente e in prima persona- con la seconda parte, in cui ci si sposta progressivamente verso l'oggi. Nella prima metà storia e ambientazione sono ancora coerenti e sensate, soprattutto si nota una notevole cura e abilità nel ricostruire ambienti, mode, slang giovanile dell'epoca, e c'è un giusto mix di pubblico e privato nelle vicende dei protagonisti. Poi, a partire dagli anni Ottanta, gli autori iniziano a navigare a vista, la ricostruzione storica si fa sempre più sciatta, l'aspetto pubblico delle storie scompare o si banalizza in favore di un privato sempre più involuto e irrealistico (non manca nemmeno un figlio segreto, come nelle migliori soap opera d'oltreoceano, e c'è addirittura un fantasma, sì, proprio un fantasma, ma facciamo che non vi ho detto niente, ok?). Il tutto si riduce così ad un melodramma insulso, una sequela infinita di scene strappalacrime e fintamente “intense”. 
Se la pecca della prima parte sta, quindi, in un Sessantotto descritto forse troppo oleograficamente, l'intera seconda parte consiste in una solenne, desolante alzata di mani in segno di resa: non sappiamo più di cosa stiamo parlando, non sappiamo descrivere il mondo post-1977, non ci appartiene, non lo conosciamo e, in fondo, non ci interessa. Un caso eclatante di “due pesi e due misure”.
L'elemento più disastroso di questa kolossale ciofeca, comunque, sono i personaggi, tutti poco approfonditi quando non decisamente bidimensionali. Limitandoci alla sola famiglia Carati, oltre all'insipido protagonista LoCascio abbiamo un Alessio Boni “fratello tormentato”, ma di un “tormento” fine a sé stesso e che nessuno si prenderà mai la briga non dico di spiegare, ma almeno di analizzare un po', una Adriana Asti madre e vedova sofferente dagli occhi perennemente sgranati che non sembra fare altro che piangere e commuoversi, e poi ancora piangere, e poi di nuovo commuoversi (ad lib), ed infine una sorella del tutto anonima, la cui unica funzione è sposare il migliore amico di LoCascio (è talmente anonima che non sento neanche il bisogno di dirvi il nome dell'attrice). Forse c'è anche un'altra sorella, ma chi se ne frega.
Merita, però, una menzione speciale il personaggio di Sonia Bergamasco, il cui iter umano e morale (da studentessa a madre contestataria, a terrorista, a pentita e poi nuovamente madre) poteva essere davvero interessante, se trattato con un minimo di cura, ma gli autori se ne sono guardati bene.
Sciatteria si aggiunge a sciatteria ed è così che nell'ultima porzione di film ritroviamo i nostri eroi della rivoluzione sessuale prendersi amabilmente in giro al suon di “checca persa”, i nostri cultori della fantasia al potere criticare i capelli lunghi dei giovani-di-oggi, il tutto dalla quiete di una lussuosa villetta in Toscana, gustando un buon brandy. Odiosi a dir poco.
Ed è qui che, finalmente, tutto si fa chiaro. Era a questo che Giordana e i suoi sceneggiatori puntavano fin dall'inizio, fin dal titolo. Riesco quasi a sentire le loro voci altisonanti: “siamo NOI la meglio gioventù, noi che abbiamo lottato per cause giuste e grandiose, forse abbiamo vinto, forse no, ora però lasciateci cullare nella contemplazione della nostra grandezza e levatevi dalle palle!”.




PS: Attenti! Arriva il fantasmaaaahh!!


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